La cultura è vitale
L’uomo vive – è sopravvissuto - perché ha una cultura.
La nascita e la morte da fatti naturali devono diventare culturali per essere adeguatamente integrate nella comprensione della propria esistenza.
Si moriva in casa.
Ricordo la morte del nonno, ero tra i “grandi”: 16, 17 anni? La sala da pranzo trasformata in camera ardente, paramenti neri con frange argentate alle pareti. La bara aperta. L’acqua santa. I fiori, per compensare il naturale odore del cadavere. La cucina: la stufa accesa, il caffè sempre pronto e la grappa aperta per chi lo vuole corretto. Le donne si danno il turno a recitare il rosario accanto alla salma: una nenia rassicurante, in latino, anche se nessuno lo sa. A una certa ora serale le donne si ritirano, restano gli uomini. Si siedono in cucina, la porta aperta. Si raccontano i ricordi del morto. La sua abilità a guidare i cavalli, la rete di amicizie con i contadini dell’imbocco della Verzasca, sopra Gordola. Il granoturco che riusciva a avere anche in tempo di guerra. Quando c’erano i bollini lui non usava quelli dello zucchero e noi nipotini, golosi, eravamo contenti. Poi compariva un fiasco, un salame, una formaggella. Magari quella che aveva ricevuto il nonno per un ultimo trasporto di legna con il carro. E poi si parlava del cavallo, del fieno, dei carri…Chiacchiere, pettegolezzi, ricordi belli e brutti. E ogni tanto si andava a trovare il morto, ma non era necessario, le porte erano sempre aperte e così poteva sentire. All’alba arrivano le donne, noi ci si ritirava, chi per un breve sonno, chi per i lavori che non si rimandano.
Poi venne il progresso: gli altri parenti morti sono finiti nella camera mortuaria del cimitero, gelida, inospitale, il corpo in un contenitore raffreddato perché non puzzi. Voci sussurrate. Un libro per scrivere un pensiero: per il morto, per i vivi?
Certo la cultura è anche arte, filosofia, teologia, poesia, scienza…. Mi piacerebbe che fare cultura significhi anche dare significato e valore ai fatti della vita di tutti i giorni, compresi i rituali della morte.
Lo so che la versione corretta è “Cosa bisogna conoscere per insegnare il latino a Pierino?” con le due ovvie risposte. “Bisogna conoscere il latino”. “Bisogna conoscere Pierino”. Ma oggi bisogna essere corretti e offrire pari opportunità ai generi e, perché no, alle discipline scolastiche.
Si potrebbe avere anche questa variante “Cosa bisogna conoscere per curare la bronchite della signora Pina?” Ovvio, la bronchite. Ma anche la signora Pina: una vecchia diffidente, che guarda con sospetto il dottorino che non parla dialetto. Meglio buttare le medicine nel gabinetto e preparare un the di tiglio, con molto miele e un po’ di grappa. Meglio abbondante.
Mi sembra ci sia un consenso: certo si interviene sulla malattia, ma si cura il paziente. Certo si insegna la matematica, ma per educare la studentessa.
Se confronto le formazioni di un medico e di un docente di liceo questa convinzione vacilla. Il medico e il docente liceale hanno entrambi una formazione universitaria di sei anni. Si tratta dell’unica analogia. Il medico sceglie dall’inizio di fare il medico: tre anni di Bachelor, con il prevalere di contenuti scientifici, tre anni di Master di formazione clinica, a contatto con la persona malata. Il docente liceale sceglie di studiare letteratura, o matematica, o storia. Ottenuto il Master, se non è attratto da un dottorato o da altra professione sceglie di fare l’insegnante e segue l’abilitazione pedagogica di un anno: didattica della disciplina, scienze dell’educazione, pratica.
Riassumendo. Il medico studia sei anni, di cui tre clinici per conoscere oltre alla malattia anche la signora Pina. Il docente di liceo studia sei anni, di cui un anno di formazione didattica, con poco spazio per conoscere Pierina. Poi, per fortuna, alcuni sono stati capi scout, monitori di colonie, animatori sportivi. Certo, anche alcuni medici, nonostante la formazione, si concentrano solo sulla malattia e ignorano le particolarità della signora Pina.
“Cosa bisogna conoscere per curare la bronchite della signora Pina?”
La funzione della scuola nell’assegnazione dei ruoli sociali è sempre attuale. Ne conseguono rapporti non sempre lineari tra la scuola e i genitori: la scuola come ingiusto ostacolo e non come strumento di sviluppo.
In questi giorni ho avuto tre stimoli interessanti
Ho ritrovato uno scritto di Ivan Illich, anni ’70 del secolo scorso sulla – tragica – inutilità della scuola come strumento di promozione sociale dei più poveri. Cito a memoria: i diplomi della scuola – obbligatoria, democratica – dovrebbero sostituire il potere familiare nell’assegnazione dei ruoli sociali. La scuola è democratica e uguale per tutti, ma le competenze per ottenere i diplomi sono quelle tipiche delle famiglie ricche. Si seleziona da subito sulla lettera, la scrittura, il linguaggio, tipiche delle famiglie colte, non certo sulle abilità manuali sviluppate nelle famiglie povere. Così, è l’amara conclusione di Illich, non solo sei escluso, ma è anche colpa tua perché non sei stato capace.
Ho letto delle tensioni in molte parti d’Europa e spesso anche da noi tra genitori e docenti, docenti accusati di ingiustizie, di bloccare l’avvenire del proprio figlio. Il genitore si presenta accompagnato dall’avvocato.
Il ruolo di potere della scuola viene evidenziato e sofferto.
Chi può lo aggira, basta vedere l’aumento delle scuole private, spesso molto care, ma in grado di garantire l’acceso ai ruoli sociali più prestigiosi.
Chi non può tenta le vie giudiziarie, di regola con scarso successo, inquinando il clima non sempre sereno tra scuola e famiglia.
Parlando con un amico che abita in un paesino della Svizzera centrale, quella rimasta rurale e comunitaria, ho avuto un altro stimolo. Durante l’estate prima dell’ultimo anno dell’obbligo i giovani, le giovani si trovano una occupazione in una azienda che potrebbe diventare il loro futuro luogo di tirocinio. Spesso combinano e rientrano in classe con il contratto sicuro, note o non note. Spesso sanno anche cosa devono imparare bene per poter aver successo nella formazione scelta. Il potere della nota – quello che mi piace chiamare il potere profetico – svanisce. I genitori non litigano con i docenti.
Tre stimoli apparentemente discordanti: centrale mi sembra il potere affidato alla scuola, il ruolo profetico delle note. Potere in aumento considerato che sempre più l’accesso a una professione è regolato in maniera burocratica, con poco spazio alla valorizzazione delle competenze. Certo il sistema duale offre soluzioni spesso interessanti, ma la pressione del controllo burocratico – per garantire equità di trattamento – mi sembra in aumento.
Forse Illich aveva ragione, almeno un po’: attenti a non considerare equa una misura uguale per persone diseguali.
Ero al solito ristorante, aspettando che venisse libero il giornale. I pensionati leggono diligentemente, hanno tempo.
Un mio vicino, già funzionario statale mi ha riportato su un fatto del giorno.
“Ancora una volta, molestie, disagio, tutti sapevano e nessuno sapeva. E’ capitato nell’amministrazione pubblica, in quella privata, nelle scuole. Se chiedevi al bidello, sapeva. Ma chi era lui per denunciare? Nell’ufficio incriminato lo sapevano i colleghi, le colleghe, se ne parlava al caffè. Nei rapporti ufficiali, nei dettagliati formulari per definire la qualità nessun accenno. Pare non ci fosse la domanda.”
Un tema interessante che mi risveglia ricordi.
Il pensionato continua: “Ai miei tempi non c’erano i questionari, i rapporti. Visitavo regolarmente le Fondazioni che ricevevano sussidi dalla Stato. Con la scusa dell’imprevedibilità del traffico arrivavo sempre un po’ prima e mi infilavo in cucina. La cuoca era simpatica e chiacchierona. Non facevo domande, non era necessario. Il caffè era buono e le chiacchiere utili. Poi entravo in un laboratorio, sentivo l’atmosfera. L’orgoglio di chi mi mostrava un lavoro ben fatto. L’aria smarrita del tirocinante. L’atmosfera tranquilla. Quando cominciava la riunione del Consiglio mi pareva di conoscere già l’essenziale”
“Stai facendo l’elogio delle chiacchiere e dei pettegolezzi! Una piega pericolosa”
“No, il punto è un altro: incontrare le persone, dare confidenza alle persone e non alla carta. Il mio capo, ai tempi, diceva che il tempo passato seduti in ufficio serve a poco. Lui avrebbe tolto le sedie per indurre i colleghi a andare sul posto, a parlare, a conoscere in prima persona”
“Appunto altri tempi: oggi devi riempire formulari complicati per ogni cosa. Tu non conosci chi lo leggerà, lui non ti conosce”.
“Ma pensi davvero che una volta “tutti sapevano e nessuno sapeva” non poteva esistere?”
“Forse era peggio. Si sapeva, ma non si dava peso alle ingiustizie, alle molestie. Sembrava normale, il capo, il maestro erano potenti. La colpa era dei deboli”
Il giornale è diventato libero.
“Forse però anche oggi una crocetta in meno su un formulario e un contatto diretto in più….”
Swisscom riceve circa 8'000 candidature per 250 posti di apprendistato.
Come scegliere i più idonei?
Sembrerebbe semplice: note scolastiche e curriculum. Senza dimenticare i livelli in mate e tede.
No.
Swisscom ha scelto un altro modello per identificare i giovani più promettenti “capaci di gestire un progetto”. Un progetto nuovo, non privo di incognite.
Ma non è una novità. Per l’ammissione agli studi di medicina da anni si organizzano prove standardizzate in italiano francese e tedesco: una macchina complessa gestita su mandato delle Università: lo stesso giorno 4'000 studenti in possesso di una maturità accreditata partecipano a una prova che definisce una graduatoria. I primi 1'000 hanno diritto a un posto di formazione.
Le note della maturità? Nessuno le considera. Tutti gli anni alcune delle migliori studentesse o studenti – magari con il premio per la miglior maturità – non entrano in graduatoria.
Una procedura sbagliata? Criticata, certo, ma in vent’anni non si è trovato niente di meglio.
Due segnali che la funzione profetica delle note – e dei diplomi - può essere messa in discussione.
Nel 1960 un falegname delle nostre valli l’aveva già capito. A un docente che gli presentava un allievo dicendo “E’ un bravo ragazzo, ma molto debole in francese” ha semplicemente risposto: “Me lo mandi, noi le finestre le facciamo in dialetto”.
Cinquant’anni dopo anche gli esperti universitari sono giunti alla stessa conclusione.
Non l’hanno capito alcuni rappresentanti della corporazione dei docenti, che si sono stracciati le vesti – meglio la toga – di fronte al riconoscimento di formazioni non ortodosse alla professione di insegnante. In tedesco hanno parlato di “Laienlehrer”, per contrapporli ai clerici, quelli con il Diploma giusto – l’unico giusto -. Il Diploma appunto non la competenza. Uso questi termini clericali perché rappresentano bene la situazione. Era già capitato ai tempi di Freud, inizio novecento. I terapeuti da lui preparati, se non erano già medici, venivano chiamati “Laienanalytiker”. Sembra che ora, 120 anni dopo, anche gli psicoterapeuti non medici possano essere riconosciuti dalle Casse malati.
C’è sempre speranza
20 agosto 2022
Come al solito ero al bar non per bere il caffè, ma per leggere i giornali. Come al solito altri stavano tranquillamente leggendo.
Mi avvicinò un conoscente, maestro in pensione. “Deluso? Non fa niente, ci sono le solite cose, le guerre, il caldo. E poi i livelli nelle Scuole Medie. “Mi ricordo bene, io ero maestro di scuola maggiore, insegnavo italiano, storia e francese. Dopo i corsi di Pavia. Poi divenni professore alle Medie. Sempre italiano, storia e francese. Avevo tante ore e poche classi, conoscevo gli allievi. Anche le loro famiglie.” Ancora nessun giornale libero.
“Venivano gli esperti di materia. Tutti con dottorati e altro. Nessuno del professionale. All’inizio nessun problema. Poi quello di francese trovò che le mie conoscenze della cultura francese erano scarse. Così insegnai solo due materie. Meno ore per classe, più allieve e allievi. La presi male. Alla fine insegnavo solo italiano. Tante allieve e allievi, tanti consigli di classe, tante riunioni. Le famiglie le conoscevo durante le riunioni dei genitori. I genitori seduti nei banchi, scomodi, quasi a segnare chi comanda. L’orientamento lo facevano le note e i livelli.” “ Ecco, i livelli.
Sembra che Einstein abbia detto : “se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido “. I livelli, pensati come risposta alle attitudini personali – chi nuota e chi si arrampica – sono diventati criteri di qualità universali. Per fare il carpentiere meglio un apprendista con i livelli A. Ha le vertigini ? Gli piace il lavoro di squadra all’aria aperta? Domande inutili.” Avevo finito il caffè da un pezzo, ma ancora nessun giornale libero. “ Certo adesso i livelli, con la deformazione che se ne è fatta, non sono più difendibili. Bisogna per lo meno cambiargli nome. O utilizzare altre materie.” Comando un birrino, anzi due.
“ Vede la preoccupazione non è l’insegnamento ma i criteri per andare al liceo. Non per niente il Liceo è nella stessa Divisione della Scuola Media, separato dalle altre formazioni post-obbligatorie. Poi negano che la preoccupazione centrale sia fare della Media una propedeutica del Liceo! Quando non si sta attenti, si butta la discriminazione dalla finestra e rientra dalla porta. Una volta si andava al liceo con i livelli A e la media del 4,5. Poi c’erano troppi bocciati in prima liceo. Così si alzò la media a 4,65. Il sistema si adeguò rapidamente e le quote di iscrizione al liceo si stabilizzarono ai dati precedenti, con le differenze di sempre tra città e valli, figli di accademici o di operari .” Erano arrivati i birrini. “Salute !” “
Vede, toglieranno i livelli, o gli cambieranno nome, ma rimane il problema di fondo: la Media come propedeutica del liceo, la non accettazione del nostro sistema duale, con Università e Scuole universitarie professionali che offrono formazioni diverse. ma di ugual valore. Insegnare ai pesci a arrampicare , sperando che siano più felici , forse non è un buon metodo. Bisogna valorizzare anche il nuoto. Ma questo è un problema che non può affrontare la scuola, composta tutta da persone che sanno arrampicare” Era diventato libero un giornale .
Anni ottanta.
Il primario di neurologia segnala all’Ufficio dell’educazione specializzata uno suo paziente. Due settimane prima dell’esame di maturità ha avuto un grave incidente. Lunghi ricoveri, riabilitazioni. Dopo un anno situazione stabilizzata: paraplegia, buon ricupero della capacità intellettive, ma fragilità e stanchezza.
Presento una proposta al suo liceo: preparare un programma di maturità, su due anni in modo da evitare situazioni di stress. Inizio graduale, incominciando con lezioni a domicilio. “Impossibile, non è previsto dal Regolamento”
Vado dal segretario del Dipartimento: “Nessun articolo lo vieta. Ti racconto una storia, poi tu la racconti al Collegio docenti del liceo e vediamo. Quando ero direttore di un ginnasio una allieva si è rotto una gamba. Ricovero in ospedale, lunga assenza, non può fare la prova finale di francese. La media annuale era insufficiente. A luglio organizzo una prova che supera. Una mamma la cui figlia aveva una nota finale insufficiente é venuta a reclamare ritenendo che avessi commesso un’ingiustizia, non avendo offerto una analoga possibilità di ricupero alla figlia. Le ho risposto “Non sia mai detto che la scuola pubblica commette ingiustizia, Lei va a casa, rompe la gamba a sua figlia e io le organizzo l’esame di ricupero” Racconta la storia e poi vediamo se è necessario cambiare il Regolamento.
Ho raccontato la storia e non è stato necessario cambiare Regolamento.
Nella nostra epoca di pandemia burocratica temo che un’accusa di abuso di autorità, con due anni di istruttoria, una blanda condanna di aliquote sospese sarebbe stata la fine della storia. E il giovane? Non centra, stiamo parlando di basi legali e non di persone.
Tutto quello che non è esplicitamente permesso, è proibito.
Mi devo ricredere e chiedo scusa se ho formulato considerazioni irriverenti sui gruppi di lavoro che le amministrazioni solertemente incaricano di trovare soluzioni a problemi, spesso ritenuti urgenti.
Nel 1975 appena assunto dall’allora DPE (ora DECS) come responsabile dell’educazione speciale venni chiamato a far parte di una Commissione o gruppo di lavoro per proporre una struttura psichiatrica per adolescenti. Ritenuta urgente. Molto.
Ci riunimmo varie volte, approfondimmo il tema, sentimmo esperti di fuori cantone.
Dopo un anno ebbi l’impressione di marciare sul posto: il verbale della prima riunione poteva riassumere bene le considerazioni dell’ennesima seduta.
Poi la commissione si dissolse. O continuò e io non me ne accorsi. Il minorenni con gravi disturbi psichici continuavano a essere accolti – si fa per dire – nelle strutture per adulti.
Leggo che il Gran Consiglio prossimamente sarà chiamato ad approvare un Messaggio per la costruzione di un Centro per l’accoglienza e la cura di giovani con disturbi psichici. Certo non si aprirà domani. Approvare il credito, aprire un concorso, assegnare un mandato, iniziare i lavori. Con i possibili referendum e ricorsi potremo sperare nel 2025
Sono convinto che sarà una buona soluzione, meditata durante 50 anni: importante è arrivare con una soluzione non improvvisata, avendo analizzato tutti gli aspetti. Quando c’è di mezzo la salute dei/delle nostre giovani non si può improvvisare.
Nel frattempo i/le quattordicenni in crisi psichica potranno sempre essere ben accolti nelle strutture per adulti.
Se poi nel 2025 non si sarà pronti si potrà sempre costituire un gruppo di lavoro.
Tra gli ospiti illustri dei seminari del Monte Verità ci fu Kurt Wütrich, professore del Poli di Zurigo, che non aveva dimenticato le sue origini di contadino dell’Oberland bernese.
Parlò delle sue ricerche sui prioni – nessuna idea cosa fossero – e si presentò alla conferenza mettendo sulla cattedra una vecchia pantofola di ginnastica. Con le stringhe rappresentò la struttura di quelle strane cose che stava studiando. Così nel 2002 vinse il premio Nobel. Non per le stringhe, ma perché nel frattempo era scoppiata la mucca pazza e i prioni spiegavano molte cose. Un problema: nel 2003 compiva 65 anni e doveva andare in pensione, la legge era chiara. Le università americane già gli facevano ponti d’oro. Così in quattro e quattr’otto, per i tempi amministrativi quasi due anni, nel gennaio 2004 venne modifica la Legge sui politecnici, inserendo nell’art 17 il punto 4: “In casi eccezionali debitamente motivati, il Consiglio dei Politecnici Federali può convenire con un professore che il suo impiego duri oltre il limite di età di cui all’articolo 21 della legge federale del 20 dicembre 194636 sull’assicurazione per la vecchiaia e i superstiti”.
Ecco la crepa nel muro di cemento della legge: un articolo che preveda un organo che possa decidere su situazioni non previste e non prevedibili, senza applicare la legge.
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